Valutare e/o diagnostica: (ovvero sulla soggettività pedagogica)

Capita frequentemente nei gruppi di discussione presenti sui social network o nel dialogo con i colleghi Educatori Professionali e Pedagogisti che emerga la tematica diagnostica.

 

Si evidenziano rispetto al tema tre posizioni: ci sono coloro i quali sostengono che la diagnosi non competa all’area pedagogica adducendo come motivazione il fatto che ogni processo diagnostico porta inevitabilmente con sé una visione medicalizzante dell’approccio il quale confina la persona all’interno di un’etichetta diagnostica. Si perde in questo modo la direttrice di aiuto alla Persona, il prendersi cura, per travalicare totalmente in ambito medico e tentare dunque di curare una patologia.

 

Una seconda linea di pensiero, molto meno frequente e molto meno solida a mio parere, ammette la possibilità per Educatori Professionali e Pedagogisti di effettuare delle diagnosi riferendosi sostanzialmente alle categorie diagnostiche comuni ad altre professionalità e utilizzando, dunque, delle procedure e dei protocolli standardizzati reperibili in letteratura internazionale (senza averne le competenze, a mio parere).

 

Una terza via, ancor meno comune della seconda, presuppone e prevede la possibilità per i professionisti pedagogici di effettuare una diagnosi svincolandosi però totalmente dalle categorie diagnostiche e dagli strumenti di valutazione correlati e standardizzati a livello nazionale e internazionale. Questa terza via fondamentalmente introduce una nuova e differente visione della procedura diagnostica rispetto a quanto già noto e conosciuto. E qui siamo al Far West.

 

Penso sia utile, a questo punto del discorso, analizzare cosa si intenda per diagnosi, o ancor meglio delineare cosa sia il percorso diagnostico il quale ha per ultima istanza la produzione di una diagnosi.

 

Per “capire” meglio cosa si intenda farò riferimento a due ambiti di uso del termine e delle procedure: quello medico e quello psicologico.

 

L’ Enciclopedia Italiana Treccani (http://www.treccani.it/enciclopedia/diagnostica_%28Enciclopedia-Italiana%29/) al lemma “diagnostica” riporta: “In medicina, il termine d. indica il complesso di atti − sia conoscitivi che valutativi − necessari a pervenire alla diagnosi, ossia a identificare il quadro clinico presentato da un paziente con una o più malattie codificate nella nosografia. Pertanto il termine d. fa riferimento a tutti quegli elementi clinici che − opportunamente e razionalmente organizzati − vengono a costituire il procedimento diagnostico, che è una parte essenziale dell’atto medico.”

 

Wikipedia alla voce “psicodiagnostica” rende il seguente testo “Si deve in primo luogo chiarire la distinzione tra valutazione psichiatrica e psicologica.

 

In ambito psichiatrico, la valutazione “classica” è solitamente di tipo nosologico e psicopatologico, ed è effettuata attraverso un colloquio clinico ed anamnestico, eventualmente integrato dalla somministrazione di scale di rilevazione della sintomatologia psichiatrica. L’obbiettivo è quello di definire una diagnosi psichiatrica, spesso secondo i criteri nosografici delle classificazioni internazionali del DSM-IV o dell’ICD-10.

 

La diagnostica psicologica può essere invece di tipo più ampio: oltre che alla rilevazione di sintomatologia psicopatologica, infatti, la psicodiagnosi può essere riferita anche alla valutazione di aspetti e processi della personalità, alla valutazione di atteggiamenti, modalità relazionali, livello e tipologia di competenze cognitive, struttura di personalità, ecc. Frequentemente, nei modelli della diagnostica psichiatrica classica si integrano quindi strumenti e tecniche mutuate dalla pratica diagnostica di matrice psicologico-clinica.”

 

Penso sia molto interessante notare come sia l’approccio medico alla diagnostica sia quello psicologico facciano riferimento al fatto che il percorso sia strettamente legato alla ricerca delle manifestazioni di alcune “modalità di essere” riferibili a precise classificazione. Utilizzo l’espressione modalità di essere perché già in ambito psicologico è chiaro il fatto che non sempre queste manifestazioni debbano o possano essere necessariamente patologiche. Si noti ad esempio il caso di uno psicologo che diagnostica ad un suo cliente un’inclinazione caratteriale estroversa oppure un alto livello di autostima oppure ancora buone competenze genitoriali e un buon sistema di attaccamento.

 

Secondariamente penso sia facilmente intuibile come effettuare, o per meglio dire porre, una diagnosi significhi rifarsi a canoni e criteri “differenziali” di visione della persona che debbano essere il più possibile oggettivi e comuni a tutti i colori quali effettuino la medesima analisi, con i medesimi strumenti, nelle medesime condizioni. Il perché di questa necessità è facilmente comprensibile: due Pedagogisti non dovrebbero fornire diagnosi diametralmente opposte della medesima persona riguardo alle medesime manifestazioni.

 

Il rischio evidente sarebbe che ogni Educatore Professionale o Pedagogista diagnosticasse utilizzando come parametro di valutazione il proprio punto di vista. Riprendendo il parallelo medico sarebbe come se effettuando uno screening ematologico presso due laboratori di analisi distinti risultasse in un caso che la persona in esame fosse, ad esempio, diabetica e nel secondo caso non lo fosse perché i due tecnici di laboratorio la vedono in maniera differente.

 

Penso risulti chiaro, nell’estremizzazione dell’esempio, il rischio concreto per la salute della persona.

 

Similmente uguale rischio è presente anche nell’ambito professionale pedagogico! Il fatto di dover riportare manifestazioni comportamentali, stati d’essere, modi relazionali, competenze, disagi, a elementi comuni, effettuare cioè quell’operazione di serializzazione e catalogazione tipica non solo del processo di diagnosi differenziale ma anche dello sviluppo stesso del cervello umano è, a mio parere, una necessità imprescindibile per poter parlare di diagnosi.

 

Il rifiuto totale della catalogazione e classificazione, il rifiuto dell’uso delle categorie diagnostiche comuni in ambito di letteratura internazionale, il rifiuto della nosografia, il rifiuto dell’uso di strumenti e procedure standardizzate di diagnosi rende impossibile di fatto porre una diagnosi, e pone gli Educatori Professionali e Pedagogisti in una condizione estremamente rischiosa di valutazione soggettiva della Persona e delle sue manifestazioni che, qualora venga affermata essere una diagnosi, genera estremi e profondi rischi a livello tecnico, etico e deontologico non solo a carico della Persona stessa ma anche del professionista.

 

Si pensi quanto questa condizione possa diventare critica nel momento in cui, ad esempio, il Pedagogista venga chiamato ad affermare in maniera precisa e sottoscritta la propria diagnosi in risposta a una domanda di perizia di un giudice. Chi ha un po’ di dimestichezza del percorso peritale saprà per certo che la parte avversa si avvarrà di un perito di parte, il cui compito sarà non solo effettuare una propria valutazione indipendente, ma anche eventualmente controbattere la valutazione del perito avverso. Ogni perizia in ambito giuridico deve presentare in maniera chiara e precisa non solo la procedura diagnostica ma anche gli strumenti utilizzati, le modalità e, soprattutto, il quadro teorico di riferimento. Non basta insomma dire: “a mio parere il signor X è un bravo genitore”, è necessario affermare la bontà dell’operato educativo del signor X supportando la propria posizione con precisi indici valutativi che possono essere rilevati, eventualmente, da un secondo giudice imparziale.

 

Arrivando a un dunque, quindi, fatte le dovute premesse precedenti penso risulti abbastanza chiara la mia posizione riguardo alla diagnosi pedagogica: un netto rifiuto.

 

A questo punto si apre un problema tecnico ed operativo per Educatori Professionali e Pedagogisti: ma se non posso porre una diagnosi come posso qualificare il mio lavoro?

 

La risposta al quesito, a mio parere personale, è facilmente rintracciabile se si adotta realmente un’ottica biopsicosociale di approccio alla Persona. Si tratta di abbandonare ogni pretesa diagnostica per riappropriarsi invece di una profonda ottica valutativa.

 

Valutare non è diagnosticare. Valutare è indispensabile. Valutare è compito dell’Educatore Professionale e del Pedagogista.

 

La valutazione che andremo dunque a stilare come Educatori Professionali e Pedagogisti non sarà normativa. La persona, cioè, non verrà vista in funzione di un campione medio standardizzato: quello è il metro diagnostico tipico per rilevare una performance in linea o non in linea con la norma, cioè per porre una diagnosi di normalità o anormalità. Nel caso pedagogico la persona verrà valutata con un metro criteriale ipsativo, andremo cioè ad effettuare un’analisi della performance della persona al medesimo compito in due momenti differenti, classicamente prima e dopo l’intervento educativo, in modo da rilevare quanti e quali siano stati i progressi rispetto all’intervento o, eventualmente, se non vi siano stati dei progressi.

 

In questo caso credo risulti palese che l’unico metro di valutazione è la Persona stessa. Si tratta di rendere il massimo della dignità e del rispetto all’individuo. Non ti misuro in base alla massa ma ti valuto in base alle tue massime possibilità di espressione e di adattamento al contesto di vita.

 

Si badi bene che la rinuncia a qualsiasi metro di valutazione che vada a ricercare la discrepanza dalla norma non è un abbandonarsi alla totale soggettività dell’occhio dell’operatore ma, anzi, è un cammino profondo verso un approccio tecnico e metodologico realmente scientifico.

 

Io Educatore Professionale o Pedagogista effettuerò la valutazione ipsativa utilizzando strumenti, tecniche e quadri teorici di riferimento validati e riconosciuti a livello internazionale nell’ottica reale di intervento di supporto della persona: la mia valutazione sarà un’analisi costante agita ex ante, ex cursus, ex post delle manifestazioni comportamentali della persona. La finalità di questa valutazione sarà orientare in maniera scientifica e possibilmente misurabile le strategie di intervento metodologiche.

 

L’effettuare una valutazione ipsativa consente di poter dialogare con tutte quelle professionalità limitrofe spesso assolutamente indispensabili per poter fornire un intervento globale di supporto alla persona. Facendo riferimento alle medesime categorie nosografiche, riferendoci ai medesimi step di valutazione l’Educatore Professionale e il Pedagogista potranno, inoltre, riconquistare quel terreno professionale confinato in quello spazio grigio di subordinazione professionale nel quale spesso vengono calati o, ancor peggio, si autoconfinano.

 

Dal punto di vista professionale significa affermare in maniera chiara e precisa le proprie competenze e peculiarità tecniche e metodologiche, ma significa anche al contempo riconoscere ed affermare i limiti netti e chiari oltre i quali si va a operare all’interno di ambiti professionali tipici di altri profili.

 

L’abbandonare ogni pretesa diagnostica per riappropriarsi in maniera potente e produttiva del processo valutativo ipsativo significa realmente mettere in atto quella Progettazione Educativa Individualizzata la quale ha come scopo principale quello di riconoscere come sacrosanta e inviolabile l’individualità della Persona. Significa riaffermare in maniera forte il carattere rivoluzionario della Pedagogia contrapposta a un’ottica massivizzante dove la persona è vista perennemente in confronto alla massa. Significa rifiutare la “one best way” di stampo globalizzante per esaltare al massimo grado il diritto e la possibilità di vivere in comunità eterogenee alla ricerca del massimo benessere personale.

 

Se realmente agissimo una valutazione pedagogica ipsativa avremmo, ad esempio, una scuola senza classi e quindi senza studenti bocciati: il nostro compito sarebbe quello di farsi che lo studente raggiunga la massima competenza prevista dal suo corso di studi confrontando però il suo livello di apprendimento con il proprio livello di apprendimento, ad esempio, del trimestre precedente e non in confronto al gruppo classe o a un criterio statistico previsto dalla sua età anagrafica. Se lo studente arriva agli obiettivi in un anno, due anni, cinque anni, e se lo fa con sue coetanei, con compagni più piccoli o più grandi, a noi in fondo non interessa; a noi dovrebbe interessare che ragazzo possa raggiungere i suoi massimi obiettivi nel miglior modo possibile, nel rispetto dei suoi tempi, delle sue caratteristiche individuali, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, con il massimo del benessere personale.

 

In quest’ottica, ad esempio, acquista senso anche il lavoro nei confronti della Persona che sperimenta un disagio esistenziale. Metteteci voi lettori una categoria nosografica di specificazione, potrebbe essere una depressione, una psicosi, un disturbo d’ansia, un’oligofrenia, una sindrome pervasivo dello sviluppo, o qualsiasi altro ambito rilevato – sia ben chiaro, da altri! – in ambito diagnostico.

 

La valutazione che effettuerò anche in questo caso sarà squisitamente basata sulla Persona, sarà una valutazione non una diagnosi. La diagnosi di depressione probabilmente l’avrò già perché mi sarà stata precedentemente fornita dal collega clinico. A me, Educatore Professionale o Pedagogista, interesserà sapere se il mio intervento di stabilizzazione dell’umore, fronteggiamento degli stati di crisi, miglioramento della partecipazione relazionale, orientamento al futuro, contrasto alle distorsioni cognitive, potenziamento delle autonomie, acquisizione delle abilità sociali, supporto alla comunicazione, supporto al riconoscimento e all’espressione emotiva, ad esempio, sta sortendo gli effetti ricercati. Poco o nulla mi interesserà se la mia persona affetta da depressione rientri a livello di classificazione all’interno degli standard normativi.

 

Medesimo discorso vale a parer mio per ogni ambito abilitativo e riabilitativo di intervento pedagogico.

 

Bibliografia e sitografia consigliata: 

  1. La diagnosi in psicologia clinica. Personalità e psicopatologia, Dazzi N.; Lingiardi V.; Gazzillo F., Editore Cortina Raffaello 
  2. Medicina psicosomatica e psicologia clinica. Modelli teorici, diagnosi, trattamento, Porcelli Piero, Editore Cortina Raffaello 
  3. La diagnosi in psicologia clinica, Caviglia G.; Del Castello E., Franco Angeli 
  4. DSM-IV-TR case studies. Guida clinca alla diagnosi differenziale, Frances Allen; Ross Ruth, Elsevier 
  5. Metodologia diagnostica. Semeiotica medica e diagnosi differenziale, Sacchetti Carlo; Ponassi Aldo G., Piccin-Nuova Libraria 
  6. Dare un senso alla diagnosi, Barron J. W.; Lingiardi V., Cortina Raffaello 
  7. La diagnosi in psichiatria. Ripensare il DSM-5, Frances Allen, Cortina Raffaello 
  8. Introduzione alla psicopatologia descrittiva, Sims Andrew; Oyebode Femi, Cortina Raffaello 
  9. ABC della psicopatologia. Esplorazione, individuazione e cura dei disturbi mentali, Falabella Mariangela, Ma. Gi. 
  10. Apprendimento e competenza sociale nella scuola. Un approccio psicologico alla valutazione e alla sperimentazione, Menesini E.; Pinto G.; Nocentini A., Carocci 
  11. L’ educatore sociale. Tra progetto e valutazione, Gatti Rita, Carocci 
  12. Costruire e usare indicatori nella ricerca sociale e nella valutazione, Bezzi C.; Cannavò L.; Palumbo M., Franco Angeli 
  13. Valutazione di qualità e supervisione. Connessioni teoriche e strategie operative nel lavoro sociale, Allegri Elena,                 Lint Editoriale 
  14. http://www.giuntios.it/catalogo/test/ 
  15. http://www.erickson.it/Pagine/default.aspx