10 teorie per un Pedagogista (parte prima)

Esistono delle basi teoriche imprescindibili per poter operare con cognizione di causa in aiuto alla Persona. 

La professione del Pedagogista è fortemente improntata sul “fare con”, ma ciò non toglie che ogni atto professionale, ogni scelta d’intervento, ogni decisione tecnica e metodologica non debba prescindere da una base teorica di riferimento. 

Di seguito proverò a elencare alcune teorie a mio parere molto utili non solo per potersi orientare nella pratica professionale quotidiana ma anche, forse, per dare un senso a molte azioni che spesso i Pedagogisti compiono in maniera quasi “automatica”, certi della positività dell’agire, dimentichi del perché si fa ciò che si fa.


Uno: teoria dell’attaccamento, John Bowlby (1969) 

Perché rende di conto di cosa significhi, per tutto il corso della vita, avere dei modelli di attaccamento primario validi o meno validi. E perché chiarisce anche la natura della monogenitorialità e della genitorialità omosessuale, nonché dell’amore omosessuale. 

A cosa serve nella pratica professionale: a capire il senso delle relazioni dell’utente e a poter intervenire su di esse. 

Testo di riferimento: Manuale dell’attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni cliniche II edizione, a cura di Jude Cassidy e Phillip R. Shaver, Fioriti Editore


Due: teoria della Working Memory, Baddeley, A.D. (revisione del 2000) 

Come funziona la memoria umana? Come si introducono nuovi dati di apprendimento? Perché ripassare è più facile che studiare? Come funzionano gli automatismi? Perché dimentichiamo? Come mai se vedo, sento, tocco, manipolo ricordo meglio che se leggo? 

Baddeley ce lo spiega in maniera lineare, semplice, veloce ed efficace. 

A cosa serve nella pratica professionale: a chi lavora con soggetti in apprendimento in contesto scolastico ed extrascolastico. 

Testo di riferimento: La memoria umana. Baddeley, A.D., Il Mulino


Tre: teoria dello sviluppo cognitivo, Piaget (1967) 

Lo sviluppo cognitivo è un gioco di assimilazione e accomodamento che, passando per la fase senso-motoria, giunge al pensiero ipotetico-deduttivo adolescenziale. Piaget ci descrive, insomma, come dai Lego© il cervello umano si estenda e sviluppi fino ad abbracciare l’idea di giustizia, di infinito, di nulla, di morte, di senso della vita. 

A cosa serve nella pratica professionale: a “leggere” una diagnosi clinica, a progettare interventi che tengano conto del livello di sviluppo evidenziato dall’utente. 

Testo di riferimento: Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi


Quattro: la teoria dei bisogni, Maslow (1954) 

L’essere umano è una macchina biologica su cui si impianta un cervello superiore. Maslow ci dice che l’unità è imprescindibile: se la pancia è vuota il cervello lo sarà di più. Ma ci diche anche che tra bisogni fisiologici e creatività c’è di mezzo la motivazione. E allora lavorare sulla motivazione può diventare una “linea di attacco” per condurre la Persona all’autorealizzazione. 

A cosa serve nella pratica professionale: a vedere l’unitarietà umana e a spiegare in parte la devianza come risposta a un bisogno, a utilizzare la motivazione come motore propulsivo del cambiamento. 

Testo di riferimento: Motivazione e personalità, Maslow Abraham H., Armando Editore


Cinque: teoria dell’identità sociale, Tajfel e Turner (1970) 

Perché il “noi” è sempre meglio del “loro”? Perché il mondo è diviso in bianchi e neri, eterosessuali e omosessuali, ricchi e poveri, vittime e carnefici? Come mai i bambini giocano tra maschi e femmine e perché poi a un certo punto qualcosa si rompe (evolve) e queste dinamiche cambiano? 

A cosa serve nella pratica professionale: a dare una chiave di lettura potente e predittiva a fenomeni sociali quali il razzismo, le tensioni internazionali, le dinamiche di conflitto intergruppo, i fenomeni di marginalizzazione sociale, i rapporti interetnici. 

Testo di riferimento: Gruppi Umani e Categorie Sociali, Tajfel H., Il Mulino


Sei: teoria dell’anomia, Merton (revisione del 1968) 

Non passa giorno che qualcuno non si suicidi a causa di problematiche economiche o esistenziali. Fenomeno inquietante e degno di interesse. Perché accade ciò? Merton ipotizza a causa di uno scompenso tra scopi esistenziali messi a disposizione dalla cultura sociale e mezzi legittimi per raggiungerli. 

A cosa serve nella pratica professionale: a capire che non si delinque perché si è neri o zingari, ma si delinque perché alcune condizioni conducono alla delinquenza. Il focus allora non è più “l’uomo nero” che incute timore perché è diverso ma diventa la società che genera l’uomo nero e lo sfrutta paradossalmente a suo favore (vedasi teoria numero 5). 

Testo di riferimento: Il suicidio. Studio di sociologia. Émile Durkheim, Trad. it. Rizzoli


Sette: modello cognitivo ABC, Beck, Ellis (1984) 

A come Antecedenti, cioè situazioni, episodi ma anche stati emotivi e situazioni che precedono un evento. B come Beliefs, ossia le credenze, pensieri (più o meno automatici) le emozioni e le sensazioni comporee che l’evento genera in me; ma anche Behaviors, cioè i comportamenti che metto in atto. C come Consequences, le conseguenze del mio pensare e del mio agire. Ma anche C come Choices: le scelte. 

A cosa serve nella pratica professionale: Il modello non solo “spiega” il comportamento ma ne descrive anche il corollario emotivo sottostante e illustra le conseguenze. E allora? E allora se lavoro su A e B posso modificare C! Va da sé la potenza dell’approccio a livello educativo. 

Testo di riferimento: Manuale di terapia cognitivo comportamentale, Graham Philip, Firera & Liuzzo Publishing


Otto: teoria dell’apprendimento sociale, Bandura (1997) 

Come impariamo? Impariamo guardando qualcuno che fa qualcosa. Qualcuno esperto che ci attrae e che fa qualcosa di interessante. E quando impariamo? Sempre! E Bandura ci dice anche in che modo lo facciamo e con quali passaggi. 

A cosa serve nella pratica professionale: a capire che il sistema istruttivo italiano è da ripensare dalle fondamenta! A ipotizzare che un modulo innato di sviluppo è insito nella natura umana e che, quindi, ogni individuo può – a diversi gradi – progredire se si trova inserito in un ambiente di vita adeguato e stimolante. A intuire che il miglior modo per far leggere un bambino/adolescente è rappresentato da mamma e papà che leggono e, conseguenzialmente, se vogliamo che un adolescente non fumi è bene che mamma e papà non fumino…etc. etc. etc. Alias: imparo ciò che vedo. 

Testo di riferimento: Autoefficacia: teoria e applicazioni. Bandura A., Erikson


Nove: teoria delle Intelligenze Multiple, Gardner (revisione del 2010) 

“Non è molto intelligente!” o anche “è intelligente ma non si applica!”, due affermazioni che alla luce delle ipotesi di Gardner perdono qualsiasi valore (se mai ne avessero avuto uno). Questo perché Gardner ci dice che non esiste l’Intelligenza, unica, monolitica e sola. No. Esistono LE intelligenze. Ne esistono ben dieci: Intelligenza logico-matematica, Intelligenza linguistica, Intelligenza spaziale, Intelligenza musicale, Intelligenza cinestetica o procedurale, Intelligenza interpersonale, Intelligenza intrapersonale, intelligenza naturalistica, intelligenza etica, intelligenza filosofico-esistenziale. 

A cosa serve nella pratica professionale: a trovare forme di supporto nuove e dinamiche: il mio utente presenta una difficoltà in ambito logico-matematico, bene, potrei fargli suonare uno strumento! O fare uno sport di squadra! Perché? Perché le intelligenze logico-matematiche, cinestesiche e musicali sono strettamente correlate e stimolare un ambito può avere ricadute precise e logiche sugli ambiti connessi. 

Si noti come, anche in questo caso, la scuola italiana faccia esattamente l’opposto… 

Testo di riferimento: Formae mentis, Gardner H., Feltrinelli


Dieci: modello della disabilità, Nagi (1977) 

Nagi è un sociologo che ha realizzato un modello della disabilità composto da quattro componenti fondamentali: la patologia attiva, che risiedeva a livello cellulare e veniva identificata come uno sconvolgimento o un danno all’integrità della struttura corporea; la menomazione, definita come la perdita o l’anormalità, a livello organico o del sistema corporeo, inclusi i segni clinici e i sintomi; le limitazioni funzionali, considerate come attributi individuali, descritte come restrizioni nella performance a livello dell’intera persona, e collegate in particolare ai ruoli sociali e alle normali attività giornaliere delle persone con disabilità. 

Le limitazioni funzionali in quest’ottica rappresentano il modo più diretto in cui la menomazione contribuisce alla disabilità, poiché interferisce con i compiti necessari per il completamento di ruoli importanti, sia personali che sociali. In altri termini l’handicap lo produce la realtà sociale in cui l’individuo è calato. Portatore di handicap, allora, diventa l’anziano in u supermercato dove gli scaffali sono troppo alti, la donna incinta che non riesce a fare le scale per andare a lavoro, il bambino adhd costretto a stare cinque ore in classe… 

A cosa serve nella pratica professionale: a strutturare interventi realmente inclusivi nella certezza che nasciamo tutti portatori di bisogni speciali (da neonati totalmente dipendenti) e finiremo tutti la nostra esistenza da portatori di bisogni speciali (da anziani parzialmente se non totalmente dipendenti) e, forse, portatori di bisogni speciali lo saremo anche nel corso della vita adulta affrontando le varie fasi dell’esistenza umana, 

Testo di riferimento: A study in the evaluation of disability and rehabilitation potential., Nagi S.Z., American Journal of Public Health, vol. 54, n. 9, pp. 1568-79