L’inclusione scolastica in Sardegna. La mia esperienza.

Quando sono stato coinvolto per la stesura di un articolo inerente l’inclusione scolastica dei bambini disabili, mi sono chiesto da dove poter partire per affrontare un argomento così vasto. La risposta che mi sono dato, forse la più semplice, ma sicuramente la più vicina a me, è stata quella di ripercorrere mentalmente i miei 15 anni di lavoro, in veste di pedagogista e psicologo, nel supporto all’inclusione scolastica. 

La mia esperienza spazia dal sassarese al cagliaritano, con un netto picco nella provincia di Oristano. 

Un po’ come per tutto il territorio nazionale, anche in Sardegna, nel corso degli anni abbiamo assistito ad una evoluzione che ci ha condotto dalla prima legge sull’integrazione delle 1971, fino a giungere alla legge-quadro 104 del 1992. 

Tra queste due date sono trascorse quattro stagioni etiche e metodologiche: la stagione dell’esclusione, la stagione della separazione, la stagione dell’integrazione, per poi giungere a quella attuale, la stagione dell’inclusione. 

I dati del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ci dicono che il numero degli studenti diversamente abili, negli anni, continua progressivamente ad aumentare. Ma ci dicono anche che sono in netto aumento quelle condizioni di disagio che per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici e sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano una risposta adeguata e personalizzata. 

Al punto che nel 2012 il MIUR ha introdotto la nuova normativa sui B.E.S., i bisogni educativi speciali. 

La legge, dunque, dimostra in pieno di aver recepito tutte le sollecitazioni, teoriche e metodologiche, derivanti dagli ultimi orientamenti internazionali a livello sociopsicopedagogico. Dovremmo quindi aspettarci che l’inclusione degli alunni diversamente abili o con bisogni educativi speciali, cammini di pari passo con quanto indicato dalla legge. 

Tuttavia, la mia esperienza personale mi porta a credere che la realtà dei fatti sia ben lontana da quanto ci si potrebbe aspettare. 

Praticamente in nessun caso nel quale sia stato chiamato come consulente esperto esterno, o in veste di operatore diretto, mi è capitato di assistere ad un reale percorso sinergico a favore dell’alunno. 

Mi spiego meglio: il processo di inclusione chiama in causa una vasta platea di soggetti. Alcuni portatori di soli diritti, tanti altri portatori di molti doveri. I diritti spettano tutti allo studente, e in parte lievemente minore alle famiglie di appartenenza. I doveri spettano agli uffici scolastici regionali, ai dirigenti scolastici, agli insegnanti curricolari, agli insegnanti specializzati in sostegno, a tutto il personale tecnico e amministrativo scolastico, alle amministrazioni comunali, ai servizi sociali, agli operatori professionali extrascolastici, agli assistenti all’autonomia e comunicazione, solo per citare i principali. 

Perché dico che non mi è mai capitato di vedere un reale percorso di inclusione? Per tutta una serie di problemi, che poi sono riconducibili a tre ordini di problematiche. La prima è economica: a fronte di un aumento del numero di studenti in condizione di disabilità o di bisogni educativi speciali, il finanziamento tende annualmente a diminuire. La seconda problematica è di tipo metodologica: per poter realmente progettare un percorso di inclusione servono competenze pedagogiche e psicologiche altamente specializzate, ma la scuola italiana non prevede pedagogisti e psicologi in organico. Il terzo ordine di problemi è legato alla struttura scolastica, con gli insegnanti che vengono nominati in netto ritardo, la fase di progettazione che viene quasi sempre condotta senza alcuna scientificità e in maniera burocratica e frettolosa, la parziale se non totale evasione delle indicazioni di legge da parte di molti dirigenti scolastici. 

Come funziona realmente la vita scolastica di uno studente diversamente abile o paradossalmente, peggio ancora, portatore di un bisogno educativo speciale? 

La legge ci dice che avrebbe diritto a una didattica personalizzata o individualizzata, quindi un percorso scolastico tagliato su misura come un abito sartoriale, in grado di colmarne il più possibile le carenze e le difficoltà, e di esaltarne al massimo livello le competenze e le potenzialità. 

La legge dice anche che all’interno dell’autonomia scolastica il consiglio di classe può decidere di seguire una progettazione compatibile con quella del resto degli alunni, e quindi per obiettivi minimi, oppure una progettazione parzialmente o totalmente differente. Da questa doppia possibilità scaturisce il fatto che lo studente possa o meno conseguire il titolo di studio, oppure una certificazione di frequenza. 

Le famiglie dovrebbero essere affiancate fin da subito da personale altamente specializzato in grado, non solo di gestire al meglio la vita scolastica del loro figlio, ma anche di rapportarsi con loro in maniera dialogica e mediativa. 

Lo studente, dal canto suo, avrebbe diritto ad essere assistito sin dal primo giorno da un docente specializzato nel sostegno, a cui dovrebbe affiancarsi il lavoro dell’intero gruppo dei docenti curricolari. Inoltre, la scuola può richiedere al Comune o agli ex uffici provinciali, a seconda dell’ordine di scuola, l’assegnazione di un assistente all’autonomia e all’integrazione. Tutta quest’équipe scolastica dovrebbe frequentemente incontrarsi e dialogare non solo al proprio interno, ma anche con le unità operative di neuropsichiatria infantile, con l’ufficio dei servizi sociali, e con tutti quegli attori sociali che lavorano con il ragazzo, come ad esempio gli allenatori di gruppi sportivi. 

La legge detta anche dei tempi. Tempi ben precisi, fatti in modo che lo studente e la famiglia non debbano mai sentirsi parte di un ingranaggio, abbandonati a se stessi in un percorso di cui non conoscono lo sviluppo. 

Don Lorenzo Milani scriveva che non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. Cinquant’anni dopo, tristemente, non posso far altro che notare che benché la legge sulla carta abbia fatto dei passi avanti enormi, la realtà quotidiana è ben lontana dall’essere anche minimamente comparabile. 

Fatte salve le sporadiche iniziative di reale inclusione, legate perlopiù alle proposte individuali di dirigenti e soprattutto dei docenti che, nel proprio operato professionale manifestano concretamente l’interesse per gli alunni e le famiglie, e non esclusivamente per il 27 del mese, fatte salve queste poche realtà, che pur esistono e di cui bisogna assolutamente tenerne conto, tutto il resto è un raffazzonarsi privo di orientamento e di scientificità. 

Spesso, troppo spesso, l’alunno diversamente abile o portatore di un bisogno educativo speciale non trova nell’istituzione scolastica una risposta all’altezza delle aspettative di legge, e dei diritti che pur gli dovrebbero essere garantiti. 

Tutto il sistema presenta delle lacune e delle carenze a volte paradossali. A partire dalla condizione degli studenti diversamente abili a cui la diagnosi viene fornita in netto ritardo, a volte anche anni, e che quindi devono rapportarsi con docenti costretti a seguire una didattica non adeguata. Ci sono poi casi di alunni a cui gli insegnanti specializzati vengono assegnati a febbraio, dopo cinque mesi dall’inizio della frequenza scolastica. Casi frequentissimi in cui gli insegnanti di sostegno non sono insegnanti specializzati. Cioè, come dire che se voi andate dal dentista per l’estrazione di un molare, vi sedete sulla sedia, il medico vi informa che è un oculista, perché di dentisti non ce n’erano più. 

Se poi questo alunno è riuscito ad avere una diagnosi nei tempi corretti, e poi magari è così fortunato da avere anche un insegnante di sostegno specializzato, bisogna vedere se tutta la programmazione del consiglio di classe segue realmente le buone prassi per l’inclusione scolastica o se tutto il carico della sua gestione non ricade sul insegnante di sostegno. Capita, infatti, con una frequenza assurda, che tutto il carico didattico dell’alunno diversamente abile o con bisogni educativi speciali venga scaricato, letteralmente, dai docenti curricolari sulle spalle dell’unico collega deputato al sostegno. Questa è una aberrazione legale e metodologica della quale la scuola fa finta di non accorgersi. L’insegnante specializzato in sostegno, non è infatti assegnato all’individuo bensì alla classe. E la didattica di tutti i docenti, in presenza di un alunno diversamente abile o con un bisogno educativo speciale, deve modularsi in maniera da rendere la lezione fruibile a tutti. 

E qui si evidenzia una carenza formativa dell’intero sistema scolastico. Seppur si siano spesi centinaia di migliaia di euro per l’acquisto delle lavagne interattive multimediali, la formazione degli insegnanti è rimasta quella di decine di anni fa: la lezione frontale, da anni criticata per la sua scarsa qualità ed efficienza, di fatto è la modalità prevalente di trasferimento delle informazioni. La distanza tra docenti e alunni, piuttosto che diminuire in un rapporto dialogico e di reale sviluppo dei discenti, è stabile o addirittura in incremento. 

E nel momento in cui varca la soglia della scuola, un alunno diversamente abile o con un bisogno educativo speciale, tutto questo sistema si scontra drammaticamente con la propria incapacità di rintracciare nuove modalità di accoglimento dei bisogni. E la Sardegna si assesta tra le prime Regioni a livello italiano come tasso di dispersione scolastica. 

Al limite del parossismo troviamo poi le figure degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione. Queste figure, la cui presenza è prevista per legge, le possiamo incontrare praticamente in ogni ordine e grado di scuola, impegnate a lavorare all’interno delle classi. Tuttavia, queste figure professionali impegnate nel percorso di inclusione, a loro volta sono degli elementi esclusi. Non fanno infatti parte dell’organico scolastico. Pur venendo richiesti dai dirigenti scolastici, per andare a sopperire a quelle ore non coperte dagli insegnanti di sostegno, gli A.A.C. sono elementi esterni, estranei, che legalmente dovrebbero occuparsi di migliorare la qualità di vita dell’alunno senza, tuttavia, poter intervenire nella didattica. 

Curioso, si potrebbe pensare. Ancora più curioso se ci si interroga sul profilo professionale di queste strane figure. Chi sono? Sono quegli educatori professionali, quei pedagogisti, con gli psicologi che rappresentano lo snodo fondamentale per poter venire incontro all’adeguamento scientifico della didattica che la legge richiederebbe, e che viene richiesto anche dal buon senso e dalle necessità scolastiche quotidiane. 

Forse gioverà in questa sede ricordare come una delle prime proposte di integrazione della Buona Scuola, a livello nazionale, sia stata quella di avere un pedagogista in ogni istituto scolastico. Proposta ovviamente inevasa. 

Tracciando un bilancio della mia esperienza quindicinale all’interno, e ai limiti, degli istituti scolastici posso dire che la situazione è decisamente desolante. Lo spaesamento e l’abbandono delle famiglie è una percezione facilmente rilevabile. A volte, addirittura sostituita dalla rabbia. Rabbia nei confronti di un sistema scolastico che da solo basterebbe a generare l’handicap. 

Tutto il sistema, se lo si analizza punto per punto, è tutto fuorché inclusivo e integrante. Non lo è nemmeno con gli stessi professionisti dell’istruzione. Avete mai visto in che condizioni lavorano molti docenti? Spostamenti di decine di chilometri. Due anni fa il docente di sostegno di un minore che aveva in carico, doveva attraversare quotidianamente mezza Sardegna perché la cattedra gli era stata assegnata, ovviamente in maniera provvisoria, a 150 km dal luogo di residenza. E sappiamo bene che 150 km in Sardegna non sono 150 km di autostrada. 

Per non parlare poi del fatto che tutta la parte della progettazione e dell’aggiornamento della didattica, viene fatto a titolo totalmente gratuito durante l’orario extra lavorativo. Cioè a dire che tutto quello che i docenti fanno, lo fanno a casa e gratis. 

Per non parlare poi degli edifici scolastici stessi. Più simili a fabbriche di carne in scatola che non a luoghi deputati all’apprendimento. Un mix tra prefabbricati industriali e corsie di ospedale. Se non fosse che gli studi di ergonomia ci dicono, oramai da decenni, che l’impatto dell’ambiente svolge un ruolo cruciale sui processi di apprendimento, ci sarebbe anche da sorridere. 

Se poi solleviamo un attimo lo sguardo dalle pareti grigie, ci troviamo davanti le indicazioni del Ministero dell’Istruzione che propone ai docenti di sviluppare i P.E.I., i progetti educativi individualizzati, e i P.D.P., i piani didattici personalizzati, sulla base della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. 

L’I.C.F., queste è la sigla, descrive lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali, sociale, familiare, lavorativo, al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità. Tramite l’ICF si vuole quindi descrivere non le persone, ma le loro situazioni di vita quotidiana in relazione al loro contesto ambientale e sottolineare l’individuo non solo come persona avente malattie o disabilità, ma soprattutto evidenziarne l’unicità e la globalità. 

Un salto in avanti a livello di inclusione e progettazione scolastica di anni luce. 

Il problema, in questo caso, è che pochissimi docenti conoscono cosa sia l’I.C.F., e ancor meno tra coloro che lo conoscono, l’utilizzano. Il Ministero, dal canto suo propone la sua applicazione, ma non obbliga a farlo. Come dire che anche in questo caso l’iniziativa è legata all’intraprendenza del singolo. 

Quest’anno, da questo punto di vista, credo di aver visto toccare il fondo. Dopo aver lavorato in qualità di consulente esterno psicologo, affiancato da una collega educatore professionale, alla revisione e integrazione del P.E.I. di un alunno sedicenne con sindrome di Down, al momento della sottoscrizione del documento da parte dei genitori mi sono reso conto che tutta la parte progettuale sviluppata in ottica I.C.F. era stata eliminata. 

Questo dopo aver lavorato con il dirigente, l’insegnante specializzato, e una gran parte degli insegnanti curricolari per circa sei mesi. La motivazione? Il dirigente ha richiesto l’eliminazione, perché quanto inserito nel documento avrebbe fatto emergere le lacune didattiche e metodologica dell’istituzione scolastica. 

In fondo, dunque, la tanto decantata inclusione sociale degli alunni diversamente abili o con bisogni educativi speciali è ben lontana dall’essere una realtà quotidiana. Di fatto ci si trova in una condizione difforme dalle aspettative, e che deve ancora scontrarsi con degli ostacoli sistemici spesso insormontabili. 

La paura della sanitarizzazione, cioè di rendere le scuole più simili a degli ospedali piuttosto che a dei luoghi di apprendimento e di istruzione è un processo fortemente in atto. E già questo, con la consueta lucidità critica che lo contraddistingue, era stato detto e scritto cinquant’anni fa da Milani: “Se si perde loro (gli ultimi) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati.”. 

Cosa si potrebbe fare per raddrizzare questo albero storto? Ripartire dalle radici. Riappropriarsi di quel sistema di istruzione montessoriano, dove l’eccellenza è data dalla massima espressione delle potenzialità individuali di ogni alunno. Dove la tensione dei docenti debba essere indirizzata a favorire il dispiegamento delle massime potenzialità dei discenti, e non a renderli tutti uguali. 

Potremmo ripartire dal pensare che la differenza, qualsiasi essa sia, è una ricchezza. Un campo di margherite tutte gialle è sicuramente bello. Ma se in mezzo a tutte quelle margherite gialle, spunta un papavero rosso, noi osserveremo il papavero rosso. 

Si potrebbe ipotizzare degli spazi nuovi. Eliminare le cattedre, e insieme alle cattedre rivedere profondamente la metodologia didattica. Non più un apprendimento che insegna l’individualismo e la competizione. Un apprendimento di gruppo, fatto realmente insieme, fatto di scoperte e non di ripetizione, fatto di esplorazione, fatto di pratica. Una metodologia didattica dove il diversamente abile non abbia più necessità di essere incluso, perché già parte attiva del gruppo. Una metodologia dialogica, dove i bisogni psicopedagogici degli alunni tornino ad essere il centro della visione della scuola. 

Si potrebbe ripartire dalla formazione psicopedagogica dei docenti. Ferma a paradigmi di decine di anni fa. Si potrebbe smettere di competere tra famiglie, scuola, operatori extrascolastici per riprendere contatto con quell’etica e quella deontologia che dovrebbe essere il fondamento di ogni azione educativa. 

Davanti alle sfide nuove di una società sempre più complessa e fluida, si potrebbe far ricorso alla professionalità di pedagogisti, educatori professionali e psicologi a supporto degli alunni, delle famiglie e dei docenti. 

Si potrebbe iniziare a far applicare le leggi che già abbiamo, magari verificando l’operato di chi dirige. Si potrebbe iniziare a pensare che il miglioramento della condizione dei professionisti della scuola, potrebbe avere come effetto il miglioramento del loro operato sul posto di lavoro. 

Tutto ciò è estremamente complicato, perché in fondo viviamo in una società dove gli stereotipi culturali e le richieste sono tutte indirizzate a eliminare le diversità, a piallarci tutti verso un modello umano standardizzato. 

Ma tutto diventa molto più semplice se ci guardiamo indietro, se osserviamo da dove veniamo. Don Milani diceva “Quando avete buttato nel mondo d’oggi un ragazzo senza istruzione avete buttato in cielo un passerotto senza ali”, ma diceva anche “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola”. 

Riprendiamo da qui. Riprenda ogni dirigente, ogni docente di sostegno, ogni docente curricolare, ogni assistente all’integrazione e alla comunicazione, riprenda ogni genitore, a chiedersi se ciò che sta facendo è il massimo che può fare. 

Riprendiamo tutti a guardarci in faccia, a parlarci, a chiederci come ci sentiremo noi nei panni del nostro alunno diversamente abile o con dei bisogni educativi speciali. 

Si può riprendere da qui. Riprendiamo dall’essere umani. 

E riportiamo l’umanità al centro della scuola. 

 

Editoriale pubbblicato sul numero 8 di Dialogo.

Il Quindicinale di informazione e di approfondimento della Diocesi di Alghero-Bosa.

http://www.dialogoweb.it/modules.php?modulo=mkNews&idcontent=824